L’Islanda non ha più bisogno dell’Europa. Il primo Paese europeo travolto dalla crisi del debito sovrano ha deciso di sospendere il suo ingresso nell’Ue. Nei mesi scorsi, fra le 320 mila persone circa che popolano l’isola (un po’ più della metà del Comune di Genova) il sentimento anti-Bruxelles si è fatto strada in maniera sempre più concreta: fatto certificato da un sondaggio Gallup che dà ormai al 60% la quota degli islandesi euroscettici. Numeri che hanno indotto l’attuale governo rosso-verde a sospendere ogni trattativa a dopo le elezioni di aprile. A seguito della crisi del 2008, culminata in una rivoluzione pacifica (la “rivoluzione delle pentole”) ma anche nell’azzeramento di un’intera classe dirigente, chi comanda oggi in Islanda è ben attento ad ascoltare i rumori della pancia del Paese, e il verdetto è chiaro: l’Europa non viene più
bene, l’Islanda può continuare a marciare da sola, come ha sempre fatto. In questo modo il governo di sinistra - che ambiva all’ingresso nell’Ue, ma soprattutto nell’euro, per avere una moneta meno fluttuante - di fatto si allinea alle posizioni del centrodestra. Reykjavik iniziò a trattare l’entrata nell’Unione europea nel 2009, nel momento più buio della sua storia recente, quando il rischio di annegare nei debiti faceva sentire l’Islanda un Paese sostanzialmente solo, isolato dall’Oceano e senza nessun vero appoggio istituzionale dall’esterno. Il governo rosso-verde si vide squadernata un’agenda di cose da fare: 30 “capitoli” da assolvere, euro-regole da eseguire, negoziare, discutere. Con il tempo, le trattative per far entrare l’Islanda nell’area Ue vanno lente, lentissime. Il negoziato va a scogli quando si tocca il tema sensibile della pesca. Abbandonata la vocazione finanziaria, il Paese infatti è tornato a puntare forte sull’economia delle origini. Così è nato un diverbio infinito tra Reykjavik e Bruxelles sulla questione degli sgombri, con l’Islanda che negli ultimi anni ha aumentato il tetto massimo di pescato da 2.000 a 130 mila tonnellate, facendo impazzire gli eurocrati, alle prese con i pesi e contrappesi delle loro complesse politiche di settore. Dalla metà del 2011, portato a termine il piano per mettere in sicurezza in conti del Paese concordato con il Fmi, il governo ha proceduto sempre più malvolentieri a spuntare tutte le euro-caselle. Tanto che ad oggi, dei 30 gradini per entrare nel club di Bruxelles, l’Islanda ne ha saliti appena 11. Questo del resto è un Paese che si è tirato fuori dalla crisi con le proprie forze, e la piazza ha giocato un ruolo fondamentale. La grande crisi sull’isola fu provocata dalla leggerezza delle tre maggiori banche del Paese, che dopo la liberalizzazione degli anni Novanta approfittarono a piene mani del clima di ebbrezza finanziaria che si respirava un po’ ovunque in quel periodo. Nella seconda metà degli anni Duemila questi tre istituti (Glitnir, Kaupþing, Landsbanki) letteralmente decollarono, gonfiando i loro patrimoni con credito facile, acquisizioni all’estero, spericolate operazioni su derivati. Bastò tuttavia un giudizio negativo di Fitch nel 2006 - sulla stabilità finanziaria di questi tre istituti - mettere in crisi l’intero sistema. Un’asta di bond non andata a buon fine innescò una crisi dapprima latente, poi drammatica a causa dell’effetto a catena dei mutui subprime americani. Nel 2008 la fragile rete che teneva su il sistema finanziario islandese si spezzò, portando il Paese in default. Furono mesi tesissimi: si ricorderà il congelamento dei conti correnti delle banche islandesi in Gran Bretagna e Islanda, il ricorso al Fmi e i piccoli potentati locali che cominciavano a garantire se stessi. Banchieri e politici di allora cominciarono a guardare con sempre più interesse alle tasche dei cittadini. Un po’ di austerity, qualche bastonata fiscale data nei punti giusti, e il sistema sarebbe tornato a prosperare. La “casseruole” bloccarono questi progetti, ma di fatto anche il nuovo governo rosso-verde ha cercato di propinare ricette di salvataggio più o meno simili, ma tutte bocciate colpi di referendum. La vicenda non si è ancora conclusa, ma nel frattempo l’economia islandese si è ripresa. Chiuse almeno in apparenza le velleità finanziarie, il Paese è ripartito, la disoccupazione è al 4,4% e l’Europa - con le sue regole e i suoi Paesi a rischio crac - è tornata di nuovo una realtà cui guardare a dovuta distanza. Come ai bei tempi.
Tratto da-http://informazioneconsapevole.blogspot.it/
bene, l’Islanda può continuare a marciare da sola, come ha sempre fatto. In questo modo il governo di sinistra - che ambiva all’ingresso nell’Ue, ma soprattutto nell’euro, per avere una moneta meno fluttuante - di fatto si allinea alle posizioni del centrodestra. Reykjavik iniziò a trattare l’entrata nell’Unione europea nel 2009, nel momento più buio della sua storia recente, quando il rischio di annegare nei debiti faceva sentire l’Islanda un Paese sostanzialmente solo, isolato dall’Oceano e senza nessun vero appoggio istituzionale dall’esterno. Il governo rosso-verde si vide squadernata un’agenda di cose da fare: 30 “capitoli” da assolvere, euro-regole da eseguire, negoziare, discutere. Con il tempo, le trattative per far entrare l’Islanda nell’area Ue vanno lente, lentissime. Il negoziato va a scogli quando si tocca il tema sensibile della pesca. Abbandonata la vocazione finanziaria, il Paese infatti è tornato a puntare forte sull’economia delle origini. Così è nato un diverbio infinito tra Reykjavik e Bruxelles sulla questione degli sgombri, con l’Islanda che negli ultimi anni ha aumentato il tetto massimo di pescato da 2.000 a 130 mila tonnellate, facendo impazzire gli eurocrati, alle prese con i pesi e contrappesi delle loro complesse politiche di settore. Dalla metà del 2011, portato a termine il piano per mettere in sicurezza in conti del Paese concordato con il Fmi, il governo ha proceduto sempre più malvolentieri a spuntare tutte le euro-caselle. Tanto che ad oggi, dei 30 gradini per entrare nel club di Bruxelles, l’Islanda ne ha saliti appena 11. Questo del resto è un Paese che si è tirato fuori dalla crisi con le proprie forze, e la piazza ha giocato un ruolo fondamentale. La grande crisi sull’isola fu provocata dalla leggerezza delle tre maggiori banche del Paese, che dopo la liberalizzazione degli anni Novanta approfittarono a piene mani del clima di ebbrezza finanziaria che si respirava un po’ ovunque in quel periodo. Nella seconda metà degli anni Duemila questi tre istituti (Glitnir, Kaupþing, Landsbanki) letteralmente decollarono, gonfiando i loro patrimoni con credito facile, acquisizioni all’estero, spericolate operazioni su derivati. Bastò tuttavia un giudizio negativo di Fitch nel 2006 - sulla stabilità finanziaria di questi tre istituti - mettere in crisi l’intero sistema. Un’asta di bond non andata a buon fine innescò una crisi dapprima latente, poi drammatica a causa dell’effetto a catena dei mutui subprime americani. Nel 2008 la fragile rete che teneva su il sistema finanziario islandese si spezzò, portando il Paese in default. Furono mesi tesissimi: si ricorderà il congelamento dei conti correnti delle banche islandesi in Gran Bretagna e Islanda, il ricorso al Fmi e i piccoli potentati locali che cominciavano a garantire se stessi. Banchieri e politici di allora cominciarono a guardare con sempre più interesse alle tasche dei cittadini. Un po’ di austerity, qualche bastonata fiscale data nei punti giusti, e il sistema sarebbe tornato a prosperare. La “casseruole” bloccarono questi progetti, ma di fatto anche il nuovo governo rosso-verde ha cercato di propinare ricette di salvataggio più o meno simili, ma tutte bocciate colpi di referendum. La vicenda non si è ancora conclusa, ma nel frattempo l’economia islandese si è ripresa. Chiuse almeno in apparenza le velleità finanziarie, il Paese è ripartito, la disoccupazione è al 4,4% e l’Europa - con le sue regole e i suoi Paesi a rischio crac - è tornata di nuovo una realtà cui guardare a dovuta distanza. Come ai bei tempi.
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