Marra: LA VERITA' SU MAFIA, CAMORRA E 'NDRANGHETA
Io la camorra come organizzazione, benché di delinquenti ne abbia visti tanti, non l'ho mai incontrata.
Non l'ho mai incontrata nonostante le cause contro migliaia di aziende spesso di Casal di Principe, specie da avvocato della CGIL dal 75 all'85 a Napoli e nei comuni della zona flegrea; l'attività di importatore di pesce nei primi anni ottanta; quella da deputato dal 94 al 99; e soprattutto vent'anni di documenti come questo in ogni campo.
Una vita così complessa e densa di occasioni per imbattermici da non consentirmi di condividere la rappresentazione di Saviano in Gomorra, che la descrive egemone ovunque.
Una rappresentazione bella, coraggiosa ed importante per la divulgazione di molte e gravi cose, ma sono dolente di essere obbligato a dirlo pur dinanzi all'impegno e l'intelligenza di questo giovane uomo nel fondo comunque di regime.
Tant'è che del regime, che se l'apprezza non è certo perché si commuova dinanzi alla verità e la cultura, ha avuto l'appoggio incondizionato.
Una falsa rappresentazione di regime che ha creato dei napoletani l'idea di popolo in guerra con i clan, laddove lo sono con gli abusi e le disfunzioni pubbliche, è va assolutamente corretta perché induce a combattere il crimine in modi diversi da come va fatto, e lo rende così invincibile.
Una cosa grave descrivere la diffusissima delinquenza come mafia, camorra e 'ndrangheta, per la quale nel 1995 ho addirittura organizzato una manifestazione di protesta dei cittadini di Africo e Platì contro la Procura della Repubblica di Cosenza e la RAI.
Una protesta perché l'abuso di questi termini fino a realizzare l'assimilazione come mafia nella coscienza collettiva persino della delinquenza russa o cinese, mira a criminalizzare le culture del Sud Italia, la cui pretesa inciviltà è in realtà la pena che esso sconta per non aver aderito ai modelli culturali dominanti.
Una criminalizzazione attuata riducendo la massima cultura del pianeta alla criminalità delle sue frange mediante il mistificare i legami dovuti all'appartenenza ad una stessa origine, e le regole, i valori, le convenzioni, i riti attraverso cui quei legami continuano a svolgersi anche in presenza ma a prescindere dal crimine, e trasformarli nelle connotazioni di una super organizzazione.
Super organizzazione in cui tragicomicamente anche i delinquenti recitano il copione scritto dai media.
Benché una qualche organizzazione in funzione dei fini criminali non possano che averla anche loro; come nel commercio della droga, dove però l'immagine di super organizzazione discende forse più che dagli ovvi aspetti organizzativi prettamente criminali, dall'ampiezza planetaria del contributo della società civile.
Una vulgata della super organizzazione si badi che ha radici normative e giudiziarie, tant'è che anche Saviano l'ha ingenuamente ricavata dalla lettura dei processi.
Radici nelle leggi speciali che per far fronte alla difficoltà di perseguire ambiti o singoli la cui criminalità si dà magari fondatamente per scontata, hanno creato tipi di reati e presunzioni di ispirazione sociologico/ geografica, causando fra le tante anomalie che prima ancora di colpire i criminali, o a volte i malcapitati, si colpiscano i territori.
Quanto ai dati bisognerebbe credere che ha gran rispetto della vita umana la camorra, o non si spiegherebbero gli appena 220 morti ammazzati in media l'anno, visti gli 11.000 annuali uccisi negli Stati Uniti solo con le armi da fuoco.
Proprio cioè quando Saviano scrive i numeri, la sua lettura degli eventi mostra più chiare le coincidenze con quella di regime, che enfatizza le maschere del male per obliarne i volti.
E non perché 220 morti l'anno in media siano pochi rispetto ad 11.000, ma perché anche fossero moltissimi gli assassinii non dimostrerebbero mai organizzazione, ma solo stupidità, follia ed emarginazione.
Né ci si accorge, nel riempire le pagine e gli schermi con i numeri del denaro della camorra, che anche qui le cifre sono nulla a paragone delle migliaia, milioni di miliardi di euro dei protagonisti dell'annientamento globale della società umana: le banche e l'imprenditoria consumistica.
Ma ricominciamo daccapo.
La trovai infine per 8 euro al mercatino di Acciaroli, l'estate scorsa, la tracolla da motociclista che avevo cercato in vari negozi.
Mia nipote Mariolina commentò scherzando che la mia avversione alle griffe non era bastata a sfuggirne, giacché il negozio di una nota marca la vendeva, firmata, 250 euro.
Un fenomeno che ho qualificato politica dei prezzi, nel senso che le marche sono riuscite a far passare, specie nell'abbigliamento, la logica secondo la quale ciò che fa vendere un oggetto è proprio il prezzo alto, testimoniando esso la sola cosa che conti: la capacità di acquisto.
Cose non inquadrabili nella concezione liberistica secondo cui ciò che non è vietato è lecito, configurandosi molteplici violazioni penalistiche e civilistiche sia nella realizzazione di questi beni da parte del circuito produttivo illegale, che nella loro commercializzazione a prezzi decine di volte multipli da parte del circuito legale mediante il renderli originali in virtù della mera apposizione dei marchi.
Violazioni dall'usura reale al contratto rescindibile per eccessiva onerosità e alla frode, dall'intermediazione fittizia nel rapporto di lavoro alla disapplicazione di ogni diritto uma no, del diritto del lavoro, della previdenza e dell'assistenza sanitaria e non.
E non aggiungo del diritto tributario perché il sistema fiscale è illegale, stante il signoraggio primario e secondario.
Comportamenti vietati sia specificamente che da tutte quelle norme di ogni livello che consentono di colpire civilmente e/o penalmente ciò che leda la sostanza di fondamentali principi di giustizia, quali l'obbligo di buona fede, la penalizzazione invalidante degli artifizi, l'eccessiva onerosità, la meritevolezza della tutela, il contrasto rispetto ad interessi della col lettività, eccetera.
Produzioni che possono essere del livello qualitativo che si desidera, perché quando il circuito illegale produce per le marche si attiene ai canoni che richiedono, servendosi altrimenti di materiali, maestranze e tecniche di basso livello.
Un'originalità, quella delle marche, che è risibile possa avere rilevanza giuridica, richiedendo l'originalità contenuti di un'elevatezza in questo campo fuor di luogo.
Idee copiate da uncreatore all'altro, i cui originali sono se mai di qualche millennio fa (vedasi tra le tante, al Louvre, la statuetta lignea della Donatrice d'Amore).
Oggetti, chiunque poi li venda con o senza marchio, vero o falso che sia, la cui ideazione, oltre che produzione, se di ideazione si può parlare, è sì anche dei cinesi vesuviani o di Prato, Cina, Corea, in mano ai delinquenti nostrani, ma soprattutto è in mano ai padroni degli schiavi delle multinazionali, la cui cifra è al solito così alta che a sentirla si defilerebbero spauriti finanche i pur corruschi casalesi, trattandosi di centinaia di milioni, se non qualche mi liardo di persone.
Sterminate produzioni illegali realizzate con la collusione del contesto degli Stati, poiché da quando esiste chi produce a prezzi infimi, nessun produttore onesto (le multinazionali) spenderebbe un centesimo in più per ciò che può comprare o commissionare ad un centesimo in meno.
Naturalmente ci sono anche imprese che realizzano i prodotti in proprio, o assemblano prodotti di provenienza legale, ma la mancanza di controlli che l'imprenditoria ha imposto nel mondo ha reso i mercati aberranti in generale.
Limitandoci a parlare della civilissima Italia, nel 94, un giorno, in Calabria, mi ritrovai in un'industria alimentare circondato, alla luce del sole, da montagne di pacchi di buste delle principali marche (multinazionali), nelle quali, in regime di appalto, imbustavano vari tipi di ortaggi variamente precotti.
Assurdità imposte dal mercato come cose normali, ma che per essere illecite non occorre siano in mano al crimine organizzato, essendolo di per sé, a partire dalla vanificazione dei già pochi controlli.
Mancanza di controlli della quale l'apparato legale si giova per le sue mistificazioni universali, ma che poi sfrutta anche lo sterminato apparato produttivo illegale, sicché alla fine è impossibile capire chi fa che, come e per chi; proprio come vuole la logica produttiva consumistica.
Un sistemalegale che intasca il grosso dei frutti di quello illegale.
Sghembe logiche che solo il cambiamento culturale può sconfiggere, perché il sistema produttivo illegale mondiale, illegale proprio come il suo rapporto con il sistema legale, è anch'esso, come tutto il male che ci avvince, figlio del consumismo: la cultura rivolta a subordinare l'uomo alle logiche produttive anziché le logiche produttive all'uomo.
Un'illiceità in un modo o nell'altro costante, perché la sua scaturigine è l'assenza di controllo civilistico, essendo quello penalistico rivolto a coltivare la logica delle mele marce per imporre la sanità del tutto.
Si pensi ad un commercio nobile come quello dei libri scolastici universitari e non.
Libri che dovrebbero essere scelti da un organo nazionale che ne dichiarasse idonei non più di alcuni per materia, ed essere venduti a prezzi coerenti ai 2, 3 euro che costa stamparli persino legalmente.
Assenza di regole per consentire il taglieggio delle famiglie e compensare l'originalità di libri spesso cattivi, generalmente anch'essi copie di copie all'infinito, e la cui esistenza ed il cui prezzo poggia solo sulla collusione delle Istituzioni con i potentati scolastici ed editoriali.
Né si vede quale legalità possa garantire un sistema basato sul signoraggio: il crimine dei crimini.
Istituzioni, eserciti di politici, magistrati e tutori dell'ordine che consentono che nessun supermercato venda una bottiglia di olio sulla quale fra le varie scritte altisonanti si legga che è fatto sì con le olive, ma italiane, benché sia noto che specie quelle di certi paesi sono mere bacche.
Sistema di Stati che persegue i criminali convenzionali ma non vede che i suoi apparati legali inondano il mondo di beni inutili il cui vero prezzo è una vita che non conviene vivere per miliardi di dolentissimi esseri umani.
Un risanamento che, a volerlo, si perseguirebbe facilmente mediante una giustizia civile rapida quanto giusta, perché è iniqua anche nei paesi dove è rapida.
Quanto all'Italia, comunque, se il sistema introitasse 300.000 cause nuove al mese, basterebbe che 9.000 magistrati ne definissero 33 al mese per ciascuno per farle durare in media un mese ed averne una giacenza media di 300.000.
Di tal che, perché durino 66 mesi e la giacenza media divenga di quasi venti milioni, occorre che ognuno ne definisca una ogni 66 giorni.
Rapidità ed equità nelle quali non si può per ora sperare perché la giustizia civile, attraverso l'eterna contrapposizione delle parti, è il vero regolatore della società, e determinerebbe i cambiamenti che ciascuno invoca ma nessuno realmente vuole temendo possano cambiare anche la sua di vita.
Cambiamenti che inizieranno e saranno precipitosi nei prossimi quattro cinque anni, o meno, appena si verificheranno i primi enormi disastri per l'involuzione climatica frutto del consumismo.
Cambiamenti che la società, in relazione a furti, scippi e rapine, che non hanno alcuna utilità, vuole effettivamente, di nuovo senza poterli ottenere, ma per altri motivi.
A parte cioè che a quanto pare l'imprenditoria criminale richiede alla sua manovalanza molto lavoro a corrispettivo di paghe quasi ordinarie, per cui molti, crimine per crimine, si danno al lavoro autonomo , è ovvio che la sempre più grave deregulation produce sempre più vaste forme di eversione comportamentale.
Autonomi sgraditi anche all'apparato produttivo illegale, perché infastidiscono troppo la società, mettendo a rischio il suo subdolo ma vitale consenso.
Furti, scippi e rapine fin nelle case divenuti comuni pur in presenza di un immane apparato poliziesco che, a Napoli come a New York, non ha alibi ma non è in condizione di far nulla perché dovrebbe iniziare da un'autoanalisi che richiede una generosità e qualità che non può avere perché, come la politica, è stato concepito per fini conservatorii.
Un'incapacità realizzata usando i media per creare consenso elettorale (altro che voto di scambio) verso quella cultura che, a Napoli più che altrove, ma ripeto che è vero in tutto il mondo, non ha mai concepito il dirigere, il controllare ed il giudicare quali lavori, ma quali poteri per ottenere vantaggi e privilegi, fra cui il disimpegno, ovvero burocraticamente, essendo la burocraticità una tendenza a rendersi temibili o inaccessibili nei propri ruoli allo scopo di poterseli vendere e di potersi disimpegnare.
Lavori, il dirigere, controllare e giudicare, fondamentali ed eseguibili solo da chi vi abbia vera attitudine, ed a seguito di una lunga e seria preparazione ed esperienza.
Argomento che introduce il tema della bravura, indispensabile quando si inizierà ad usare la politica, la magistratura, le polizie e le istituzioni come strumenti di cambiamento e non di conservazione, perché per fare ciò che è difficile non basta essere onesti.
Un'incapacità frutto di un'attenta selezione, perché, volendosi che nulla sia mosso da nessuno, si affida la politica ed ogni ruolo di rilievo solo a chi non sia in grado di far nulla, nemmeno se si ribelli.
Un conservatorismo che persiste nonostante il diffuso malessere, per cui, anziché cambiare gli uomini, si insiste, da qui agli antipodi, nel chiedere a quelli scelti quali garanti dell'immobilismo di trasformarsi in artefici del cambiamento, sapendo che essi, se pressati, sanno a limite solo seguire il filo rosso degli interessi di parte.
Un peccato perché salvare l'economia, ad esempio in Italia, sarebbe facile per chi lo sappia fare in maniere che avvantaggino tutti (ma lo è ovunque, perché ormai produrre è semplicissimo), essendo sufficiente eliminare il signoraggio primario e/ o secondario, facendo così venir meno anche l'esigenza delle tasse, nonché fare dell'Italia il paese leader del settore leader dell'economia (l'alimentare) promulgando la legge sull'etichettatura dei prodotti agricoli ed ittici nella vendita al dettaglio che scrissi nel 1995 (vedi in La fase di Saul), ed organizzando una campagna di informazione planetaria per divulgare che, dal pesce alla carne e agli ortofrutticoli, gli alimentari italiani sono i migliori del mondo.
Burocrazie tanto peggiori quanto più evolute, come la mortifera quanto raffinata burocrazia europea.
Un'aspirazione ad ottenere cose tramite il ruolo che è la politica che guida l'apparato mondiale, il filo rosso che ne ispira le logiche, il movente che ne caratterizza i fini, la ragione che ne determina la struttura e gli organigrammi, la molla delle sue ambizioni ed entusiasmi, e la spiegazione della sua impotenza, invidia e cattiveria.
Aspirazione uno dei cui effetti, a Napoli, è confondere ladri, scippatori, rapinatori e criminalità organizzata.
Autonomi che si tende a qualificare organizzati sia di nuovo come alibi dell'incapacità di sconfiggerli, e sia alla ricerca di un sensazionale vergognoso e fasullo.
Un sensazionale che serve a vantarsi, a raccogliere corrispettivi, e ad illudersi ed illudendosi resistere al malcontento imponendo alla società un'immagine degli autonomi quali criminali organizzati per far apparire anche la lotta contro di loro come un poco controllabile fatto intellettuale, che richieda acume più che lavoro, e dissimulare così che il contesto dei poteri non sa far nulla.
Sconfiggere il gran numero di singoli delinquenti che appestano la città è cioè un'operazione molto fisica, oltre che molto intellettuale, e richiede organizzazione, lavoro e quella bravura che come già detto è la cosa che meno di qualunque altra si possa improvvisare.
Difficoltà esasperate, quanto a Napoli, dalla radice culturale dell'apparato, circa la quale riporto alcune considerazioni tratte da La civiltà degli onesti, che pubblicai nel 1998.
Leggendo Il Corricolo, un bellissimo libro di Dumas figlio, quel che stupisce di Napoli, teatro solo 150 anni fa delle gesta di quella nobilissima, sapientissima plebe, è che sia riuscita a ricavare dal suo inenarrabile misticismo un minimo di razionalità per adattarsi ad un modernismo che non condivide.
Valori fra i quali una certa fierezza guappesca da interpretarsi, nel suo modello ideale, come ultima forma di dignità possibile di fronte alla sarchiaponica ma feroce bestialità dell'apparato.
Valori che andò perdendo fin quando, dalla metà degli anni 60, per annettere il Sud al consumismo, iniziò un triste fenomeno di induzione all'abdicazione culturale e linguistica che, data l'estraneità dell'italiano, rese mute quelle loquacissime genti.
Un mutismo dal quale stentano ad emergere mediante un'ardua appropriazione dell'italiano, ma che Napoli, patria dell'unica cultura canora dialettale di rilevanza mondiale, ha negli ultimi anni sconfitto con un'orgogliosa riappropriazione del suo dialetto simbolizzata dal fenomeno canoro neomelodico.
Un recupero importantissimo perché la bimillenaria dissidenza meridionale (ora vedremo perché bimillenaria), costituisce il massimo fenomeno culturale planetario e, ripeto, non è perseguitata per la degenerazione di certe sue frange in forme dette mafia, camorra e 'ndrangheta, ma in quanto unica a poter battere la pseudocultura consumistica.
Un eterno tramare non per vantarmi analogo a quello che ho l'onore di subire io ad opera delle parti più becere dell'apparto quale modestissimo interprete di esse culture.
Intanto, dalla metà degli anni 70, per effetto del rivendicazionismo di matrice sessantottesca (il 68 fu soprattutto la sconfitta del potere clerico fascista ad opera del potere consumistico), quei ceti popolari pregni sì della nobiltà della loro origine plebea ma ingaglioffiti dagli influssi consumistici, diedero vita ad un inarginabile, ingente movimento per il posto, i cui componenti, a furia di cortei ritmati dal canto di indimenticabili strofe, in ragione di circa 50.000 unità, entrarono nel Comune e negli altri enti locali o statuali divenendo l'apparato pubblico partenopeo.
E fu così che la plebe e la guapparia, senza nemmeno passare attraverso l'esperienza proletaria, né tanto meno borghese, divennero pubblica amministrazione, forze dell'ordine e, specie in seconda generazione, anche magistratura.
Una realtà che in breve troverà una sua strada verso lo sviluppo e diverrà punto di riferimento universale superando gli ostacoli che impediscono alle sue tensioni positive di esprimersi se non in forme simboliche, come il canto.
Una realtà frustrata perché le sole regole che in qualche modo oggi funzionino sono quelle del modello culturale borghese, pur soffocando esso le società che lo interpretano per il suo eccesso di ipocrisia, bigottismo ed intima corruzione.
Cultura borghese che a Napoli non esiste.
L'occidentalesimo, il codice dei cui valori è l'Eneide, è infatti nato a Roma nell'anno zero dalla confluenza del naturalismo aristocratico greco pagano, i codici dei cui valori sono l'Iliade e l'Odissea, e del concettualesimo ebraico cristiano, il codice dei cui valori è la Bibbia.
Occidentalesimo che nei secoli ha conquistato il Lazio, il Centro Italia, il Nord ed il mondo conosciuto, venendo poi riformulato con la Divina Commedia: atto costitutivo e codice dei valori della società borghese nel pianeta.
Occidentalesimo che ha però trovato un confine insormontabile all'altezza di Mondragone, a nord di Napoli, sicché il Sud è rimasto nei millenni patria dell'aristocrazismo naturalistico greco pagano omerico, ed in posizione di profonda dissidenza verso l'occidentalesimo romano.
Un'esperienza antichissima e profondissima che impone una diversa via verso una modernità che realizzerà un umanesimo più avanzato di quello borghese.
Il suo peggiore nemico è nel mentre, come ovunque, il suo apparato, perché ovunque gli apparati sono prevalsi sulle persone.
Apparati che lavorano pochissimo e/ o malissimo, generano molti più problemi di quanti ne risolvano, e rendono ardui i cambiamenti perché hanno coinvolto gli elettorati.
Il rimedio è stimolarli a trovare il coraggio di aprire il confronto con se stessi.
Alfonso Luigi Marra
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