Tsunami, come noto, è parola giapponese che significa “onda nel porto”. Nel paese del Sol Levante esiste un tratto di costa particolarmente soggetto a questo fenomeno: i 600 km che, sull’isola di Honshu (la principale dell’arcipelago), vanno dalla Penisola di Shimokita, a nord, alla città di Choshi, a sud. Nel settore più settentrionale di questo litorale, detto Sanriku Coast, si sono sviluppate grandi catastrofi naturali, come ci ricorda il geologoGiampiero Petrucci.
La “fossa giapponese”. Poche centinaia di km al largo delle coste orientali del Giappone esiste una porzione del celebre “anello di fuoco” (“ring of fire” in inglese) che si estende attorno all’intero Oceano Pacifico. Detto anello rappresenta le aree in cui, al di sotto dei fondali marini, le enormi placche tettoniche si scontrano, accavallandosi l’una sull’altra, generando forti terremoti, con magnitudo ben superiori a 7.0, e grandi eruzioni. La porzione nipponica dell’anello è situata in corrispondenza della cosiddetta “fossa giapponese” (Japan Trench), un abisso marino profondo oltre 6000 metri. Si calcola che gli spostamenti relativi tra le placche possano oscillare annualmente di alcuni cm, con l’Oceano Pacifico che si starebbe “restringendo”. La Sanriku Coast scorre parallelamente alla “fossa giapponese” e questa sua posizione geografica la rende particolarmente soggetta non solo a subire gli effetti di scosse telluriche distruttive ma anche a rappresentare, data pure la sua morfologia costiera frastagliata e ricca di baie strette e lunghe simili a fiordi, un luogo privilegiato per lo sviluppo di terribili tsunami.
Jogan 869. Istigate anche dal grande disastro di Fukushima del marzo 2011, recenti ricerche dei migliori scienziati giapponesi hanno confermato questa verità. Lungo il litorale nord-orientale dell’isola di Honshu, in particolare nella Otsuchi Bay, sono stati rinvenuti infatti diversi livelli ditsunamiti (Paleotsunami e tsunamiti: intervista esclusiva alla ricercatrice Alessandra Smedile. Nella baia di Augusta le tracce di 5 maremoti!), a dimostrazione che sin dall’antichità, almeno da 6000 anni fa, la costa è stata interessata da più eventi distruttivi. Il primo di cui si ha testimonianza anche storica è datato 9 luglio 869, quando un terremoto di magnitudo stimata 8.6, con epicentro al largo di Miyako, genera un terribile tsunami. L’evento è noto con il nome di Jogan, dall’omonima era giapponese di quel periodo storico: il corrispondente livello di tsunamiti è stato rinvenuto al di sotto dei sedimenti piroclastici dovuti alla grande eruzione del vulcano Towada, avvenuta nell’anno 915, e ciò conferma la datazione. Le rare ma dettagliate fonti bibliografiche dell’epoca, unite agli studi sul territorio, portano ad un quadro catastrofico: intere cittadine, tra cui Tagajo, furono distrutte; la piana intorno a Sendai e Ishinomaki venne inondata dallo tsunami, con ingressione di circa 4 km. Si stima, anche in base alle fonti coeve, che il numero di morti dovuto al solo tsunami possa aggirarsi intorno al migliaio, cifra comunque notevole se si pensa alla relativa urbanizzazione della zona in quel periodo. Simulazioni idrodinamiche al computer portano a ritenere possibile che la costa di Sendai sia stata colpita dallo tsunami circa mezz’ora dopo la scossa principale, con onde alte fino a 8 metri. Lo sviluppo dello tsunami appare abbastanza simile a quanto verificatosi in quelle stesse aree nel marzo 2011. Probabilmente dunque si trattò di uno dei più forti terremoti mai registrati in Giappone, con annesso tsunami devastante.
Meiji Sanriku 1896. Ancora più disastroso quanto si verifica ben mille anni dopo. Il 15 giugno 1896, alle 19.32 ora locale, una scossa di terremoto viene avvertita dalla popolazione dell’intera Sanriku Coast. Il sisma non è forte e non provoca danni gravi: sembra un evento “normale” e non preoccupa la gente, occupata a festeggiare il cosiddetto Shinto ed il ritorno dei soldati dalla guerra contro la Cina. Ognuno dunque torna alle proprie occupazioni. Ma circa 35 minuti dopo, una potente onda di tsunami si abbatte sull’intero litorale, dall’isola di Hokkaido a Sendai. Tre minuti dopo arriva un’altra ondata, che completa la distruzione. I run-up, coincidendo pure con l’alta marea, sono altissimi, giungendo in certe località (in particolare nel villaggio di Ryori) addirittura fino a 38 metri. La devastazione è totale, tra le maggiori di tutta la storia giapponese. Nonostante la popolazione sia a conoscenza del fenomeno naturale, la sorpresa è assoluta perché generalmente gli tsunami giungono a seguito di terremoti ben più distruttivi. Dunque, nessuno si aspettava le onde: anche in questo modo si spiega l’altissimo numero di vittime, addirittura ben 22mila, di un evento che prende il nome di Meiji, dall’omonima era storica nipponica. Sono colpite soprattutto le prefetture di Iwate e Miyagi, circa novemila gli edifici abbattuti dalle onde, oltre settemila le imbarcazioni distrutte. Un disastro terribile, la cui causa scientifica rimane a lungo sconosciuta, anche per l’inusualità dell’evento. I calcoli sismologici attribuiscono una magnitudo intorno a 8.0 alla scossa principale e piazzano l’epicentro a circa 160 km di distanza dalla costa, non lontano dalla “fossa giapponese”.
Il fatto che le onde siano giunte fino alle Hawaii (con run-up intorno a 8-9 metri e provocando danni ingenti) e siano state registrate anche a San Francisco (con altezze non superiori ai due metri) pare escludere l’ipotesi di un’enorme frana sottomarina come origine dello tsunami perché, come abbiamo già visto in altre situazioni (Scilla 1783, Papua Nuova Guinea 1998), i maremoti legati a movimenti franosi generalmente colpiscono aree più ristrette e prossime all’epicentro. L’amplificazione locale degli effetti, dovuta alla particolare conformazione geomorfologica della Sanriku Coast, non sembra comunque sufficiente a spiegare da sola l’abnorme impatto delle onde sul litorale: in questo tratto di costa infatti sono numerose le baie dalla cosiddetta forma “a V” ovvero con un’imboccatura stretta ed i fianchi che poi si allargano man mano che si va verso l’interno. Studi recenti hanno dimostrato che questa tipologia di litorale tende ad amplificare gli effetti di uno tsunami. Ecco spiegato perché la Sanriku Coast è particolarmente soggetta al fenomeno e perché la parola tsunami, riferita alla distruzione portata dalle onde del mare sulla costa, è nata qui. Appare infatti per la prima volta nei resoconti scritti relativi all’evento del 2 dicembre 1611 quando un altro devastante tsunami, con onde alte fino a 20 metri e circa tremila morti, si sviluppa nella zona a seguito di un terremoto che non provoca particolari danni sulla terraferma. Nessun litorale al mondo probabilmente merita dunque l’appellativo di “costa degli tsunami” più della Sanriku Coast.
Ma la causa? Oggi l’origine di questi tsunami anomali, giunti inaspettatamente sulla costa e con altezze delle onde ben più grandi di quelle teoricamente possibili con le magnitudo assegnate ai relativi terremoti, sembra essere legata al particolare sviluppo dei movimenti tettonici all’atto del rilascio di energia, un fenomeno complesso e di cui abbiamo già parlato su MeteoWeb (Aleutine & Hawaii: lo tsunami del mistero. Ancora sconosciuta la causa delle onde che attraversarono il Pacifico nel 1946). Nelle zone di subduzione, come la Japan Trench, può verificarsi un particolare tipo di sisma detto“slow” ovvero “lento”, legato non ad un rilascio di energia immediato ma piuttosto continuo in un tempo più lungo ed in un’area più vasta del consueto, con velocità inferiori alla norma (da qui il nome). Ciò potrebbe provocare, secondo alcuni studi, scarsi effetti in superficie ma generare tsunami devastanti e transoceanici, a seguito anche di un sollevamento addizionale del fondo oceanico, provocato da un movimento orizzontale cosismico. In sostanza, i sedimenti non consolidati presenti in prossimità della “fossa” verrebbero come “spinti” orizzontalmente all’atto del sisma, provocando un ulteriore e notevole spostamento di acqua il quale, sommandosi a quello dovuto esclusivamente alla faglia originatrice del sisma, concorrerebbe a sviluppare uno tsunami più grande di quanto teoricamente atteso. Una recente statistica attesta che almeno il 10% degli tsunami che hanno colpito la Sanriku Coast sia stato originato da terremoti “lenti”: si tratta indubbiamente dei fenomeni più subdoli e pericolosi, perché difficilmente identificabili anche dalle più avanzate tecnologie moderne.
80 anni fa. La storia si ripete soltanto 37 anni dopo il grande evento del 1896. Alle 2.31 di notte del 23 marzo 1933 infatti si verifica una grande scossa, con epicentro a circa 300 km dalla costa, a largo di Hamaishi, magnitudo 8.4 ed ipocentro a circa 35 km di profondità. Anche in questo caso, data pure la lontananza dell’epicentro dalla costa, il terremoto non provoca gravi danni sulla terraferma. Lo tsunami, al contrario, sì. Le onde giungono sulla costa dopo oltre mezz’ora dalla scossa e generano grande distruzione dall’isola di Hokkaido a Sendai. Ancora una volta sono le baie più strette e lunghe a pagare il prezzo più alto: nella sola città di Yoshihama muoiono quasi mille persone, a Taro le onde di 10 metri distruggono il 90% delle case, molte delle quali letteralmente trascinate via dalle acque, ed uccidono il 40% della popolazione. Di nuovo, il run-up più elevato viene registrato a Ryori, con circa 23 metri. Si calcola che gli edifici distrutti furono almeno cinquemila mentre la stima delle vittime si aggira sulle tremila unità. Dopo alcune ore le onde, viaggiando per l’Oceano, raggiungono prima l’arcipelago delle Midway, con run-up fino a 6 metri e quindi anche le Hawaii, con run-up di 2-3 metri, ma senza creare particolari danni.
Imparare dalle catastrofi. L’eco di questo evento, sommata a quanto accaduto 37 anni prima, induce le autorità giapponesi a prendere drastici provvedimenti per la salvaguardia delle proprie coste. Due sono i livelli sui quali si agisce. Da una parte si istruisce la popolazione sui pericoli degli tsunami, con particolare riferimento ai segnali premonitori ed alle vie di fuga. Dall’altra, vengono costruite vere e proprie dighe e barriere litoranee, a protezione dei porti e delle cittadine più esposte. In certi casi si piantano alberi a ridosso delle spiagge, in modo da frenare parzialmente l’impeto delle onde. In altre situazioni più a rischio si spostano interi villaggi a quote più elevate. Infine viene installato una specie di monitoraggio delle altezze delle onde, costituito da colonne di cemento all’entrata delle baie e dei porti, dotate di sensori elettrici a determinate altezze: quando l’acqua raggiunge il livello del sensore, suona una sirena di allarme che permette alla popolazione di rifugiarsi alle quote più alte. Installato già nel 1936, si tratta probabilmente del primo tentativo, embrionale ma abbastanza efficace, di monitorare la pericolosità degli tsunami. Proprio da questo evento del 1933 nasce dunque nei giapponesi la consapevolezza di dover convivere quotidianamente con le grandi catastrofi naturali, diventando l’esempio più eclatante a livello mondiale di come sia necessario imparare dai disastri. Il celebre tsunami transoceanico del 1960, originato dal terremoto cileno e di cui riparleremo, genera nuovo impulso nella protezione delle coste nipponiche. Vengono potenziate le dighe in cemento (alte mediamente fino a 5-6 metri) e realizzate con successo alcune chiuse all’imboccatura dei porti, tramite speciali saracinesche che vengono calate rapidamente quando è lanciato l’allarme tsunami. A dimostrazione di come la natura, che non ama essere imbrigliata, possa comunque essere studiata ed affrontata, con rispetto ed attenzione ma senza paura.
Tutti questi accorgimenti comunque non impediscono alle onde di portare nuovamente distruzione sulla Sanriku Coast fino ai giorni nostri. Le dighe e le barriere di cemento armato riescono in alcuni casi a contenere i danni, in altri no. Molto dipende anche dalla potenza degli tsunami. Se infatti il 16 maggio 1968 lo tsunami originatosi in mare tra le isole di Honshu ed Hokkaido, a seguito di un terremoto di magnitudo 8.3, con run-up fino a 6 metri, provoca danni ingenti soprattutto alle attività di acquacoltura, ben più catastrofico risulta l’evento del 2011, a tutti noto per il disastro della centrale nucleare di Fukushima, e di cui MeteoWeb ha ampiamente parlato. In quel caso alcune cittadine costiere sono state letteralmente “salvate” dalle apposite dighe anti-tsunami, altre invece sono state annientate. A questo proposito la popolazione di Fudai, ricorda come un eroe civile Kotoku Wamura, sindaco della cittadina (di circa tremila abitanti) per parecchi anni, il quale, nonostante molte critiche, riuscì a far costruire, negli anni ’70, una diga anti-tsunami alta 15 metri, costata svariati milioni di euro. Opera che, considerata da alcuni uno spreco di denaro pubblico, ha letteralmente salvato Fudai, unica a non subire gravi danni, durante l’ultimo grande tsunami del marzo 2011. Grazie a politici illuminati come Wamura, la salvaguardia del territorio e dei cittadini è diventata uno degli obiettivi primari di ogni governo giapponese: quanta differenza, purtroppo, con il nostro paese!
Si ringrazia il Prof. Nobuo Shuto per la grande collaborazione e la concessione di alcune foto
Thanks to Prof. Nobuo Shuto who has provided us with some photos here published
BIBLIOGRAFIA
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- Minoura K.. Imamura F., Sugawara D., Kono Y, Iwashita T., The 1869 Jogan Tsunami Deposit and Recurrence Interval of Large-Scale Tsunami on the Pacific Coast of Northeast Japan, Journal of Natural Disaster Science, Vol. 23, No. 2, pp. 83-88, 2001
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- Shuto N., Present Practice of Tsunami Warning System and Hazard Mitigation Programs in Japan, Nihon University
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- http://tsunami-dl.jp (Tsunami Digital Library)
- www.wikipedia.org
- http://www. jishin.go.jp/
- www.drgeorgepc.com
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