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Indignati in Turchia. Finisce così il regime Erdoğan?


Nel Paese mille arresti e altrettanti feriti. Guarda il video

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La protesta contro la demolizione di un parco si è trasformata in una lotta  politica partita dal Web
Scontri a Istanbul
L’ultimo parco sopravvissuto nel cuore d’Istanbul, il Gezi Parkı, è composto  da circa 600 alberi. Pochi, se si pensa ai grandi parchi d’Europa. Eppure questo  piccolo parco – minacciato dai progetti megalomani di Recep Tayyip Erdoğan che  includono, tra gli altri, la costruzione dell’aeroporto più grande del mondo e  di un altro ponte tra Asia ed Europa – è oggi al centro dell’attenzione mondiale  e soprattutto potrebbe rappresentare la pietra miliare che segna l’inizio di una  nuova era nella storia politica della Turchia. L’attuale premier turco nonché ex  sindaco d’Istanbul vorrebbe infatti raderlo al suolo per far posto a una  caserma, un centro commerciale e una moschea. Per circa 370 anni – ricordano  alcuni armeni fuggiti dopo la diaspora del 1915/18 – una parte di questo parco  fu adibito a cimitero armeno, il cimitero di Pangaltı, che fu il più grande  cimitero non-musulmano d’Istanbul. Più tardi, per voler di Mustafa Kemal Atatürk  e su progetto dell’urbanista francese Henri Proust, fu creato il Gezi Parkı  Inönü che oggi rappresenta l’ultimo polmone verde presente nella parte europea  della città.
Oggi però il Gezi Parkı non è più un semplice parco  cittadino ma è il cuore della protesta del movimento #OccupyGezi o  #OccupyTaksim come sanno i più assidui frequentatori di Twitter. Sul social  network sono iniziate infatti le proteste per difendere l’ultimo parco nella  parte europea della città. Ma quella che doveva essere una protesta  ambientalista e anti-capitalista si sta trasformando nel più vasto movimento  anti-AKP da quando Erdoğan è al potere, ovvero dal 2002. Contro il movimento,  inizialmente considerato minoritario, Erdoğan ha subito mostrato il suo lato più  feroce. Contro le migliaia di persone che s’erano levate ‘indignate’ per  difendere le sorti dei seicento alberi del Gezi Parki, Erdoğan ha spedito i  reparti antisommosse della polizia che spara lacrimogeni ad altezza uomo e usa  gas urticanti e idranti contro i manifestanti.



Ieri, pur di disperdere i manifestanti, il premier turco non  ha lesinato a impiegare gli elicotteri bombardando dall’alto i manifestanti con  lacrimogeni. Roba da guerra civile o del tempo dei peggiori anni della dittatura  militare. Secondo un rapporto di Amnesty International, che ha criticato  vivamente « il ricorso eccessivo alla forza contro manifestanti pacifici»,  il bilancio per ora è di oltre mille feriti e di due morti. Secondo le cifre  fornite dal ministero degli Interni turco, circa mille persone sono state  arrestate in 48 città. Il giorno dopo la piazza Taksim sembra un campo di  battaglia. Tra i feriti di ieri ci sono anche esponenti politici di spicco come  il deputato Sırrı Süreyya Önder, ferito alla spalla da una bomba lacrimogena, il  giornalista investigativo Ahmet Şık (che ha scontato una pena di un anno di  carcere perché accusato di far parte di un complotto per rovesciare l’AKP)  colpito da un lacrimogeno sul capo, ma anche turisti come l’egiziana Lobna  Allani che è finita in coma.
Ma malgrado il pugno duro il movimento è troppo vasto e non  lo si può piegare facilmente. Grazie anche ai social network da Istanbul la  protesta s’è allargata a Smirne, Trebisonda, Antalya, Adana, Kayseri e altre  città. Nella capitale turca Ankara migliaia d’auto hanno clacsonato senza sosta  in segno di protesta, bandiere turche e ritratti di Mustafah Kemal Ataturk sono  state messe ai finestrini. Di notte a Istanbul sono state montate barricate.  Greenpeace ha trasformato il suo ufficio di Istanbul in ospedale d’urgenza per i  manifestanti feriti. Sulla Istiklal, via centrale teatro di violenti scontri,  alcuni ristoranti offono cibo ai manifestanti oppure la connessione wifi  gratuita e la gente incita le persone in corteo dai balconi. La gente sfila per  strada a Bursa, e a Smirne pure. Insomma è la società civile intera che s’è  sollevata contro il governo in carica.
«La protesta sin dall’inizio ha assunto i contorni di una movimento  anti-AKP – dice Emre Kizilkaya, redattore esteri del quotidiano turco  Hürriyet da un hotel in Taksim, teatro degli scontri più duri – anche  se è iniziato con pochi giovani e le loro tende, in maniera del tutto simile ai  movimenti di OccupyWallStreet o al movimento degli Indignados a Madrid. Come  questi movimenti infatti non ha una leadership. Grazie ai social network si è  immediatamente ingigantito e radicalizzato soprattutto di fronte alla reazione  spropositata delle forze dell’ordine. A differenza però di questi movimenti  quello di #OccupyGezi ha una richiesta concreta. Non le dimissioni del governo  ma in particolare le dimissioni di Erdoğan perché ha trasformato l’AKP in un  partito a voce unica, in un «one man party», e soprattutto perché ha imposto una  politica restrittiva in materia d’alcool ma anche in altri ambiti della  società.
La società turca ha incassato a lungo ed ora è scoppiata la  rabbia. La gente d’Istanbul vuole tornare a decidere come vivere, cosa  fare, come comportarsi, come vivere la proria religiosità. Quando un uomo da  Ankara decide tutti gli ambiti della vita allora è normale una reazione da parte  della popolazione. Ma rispetto al passato grazie ai social media la gente può  organizzarsi più velocemente e organizzare la protesta per togliere al premier  quell’aura d’invulnerabilità che lo circondava da oltre dieci anni».
Da destra a sinistra, scrittori, studenti, intellettuali, cantautori,  giornalisti e addirittura gruppi di tifosi sfilano oramai per strada  sfidando la repressione poliziesca per respingere l’idea di società che Erdoğan  vorrebbe imporre alla Turchia. Quest’ultimo stesso è stato costretto ad  ammettere gli eccessi della polizia (girano voci che la polizia usi proiettili  di gomma e gas chimici come l’agent orange, dichiarato illegale dalle  Nazioni Unite) pur non cedendo sul suo progetto ‘avveniristico’. Il presidente  della Repubblica Abdullah Gül ha lanciato un appello alla calma e al buon senso  in quanto le manifestazioni hanno raggiunto un livello “inquietante”.
In realtà l’establishment, memore di quanto accaduto in altri Paesi  come l’Egitto o la Tunisia, vacilla. La protesta è oramai fuori  controllo e da Damasco persino Bashar al Assad si toglie qualche sassolino dalla  scarpa condannando la violenza contro i manifestanti mentre dall’Iran s’elogia  la ‘Primavera Turca’. «Fino ad oggi Erdoğan pensava di essere intoccabile – dice  Emre Kizilkaya – ma malgrado l’ultilizzo spropositato della forza la protesta  diventa sempre più vasta. Da destra a sinistra tutti chiedono la stessa cosa: le  dimissioni di Erdoğan. Ora per fermare tutto questo e optare per una soluzione  pacifica Erdoğan dovrebbe rinunciare al progetto. Ma conoscendolo non rinuncerà  perché così la sua immagine ne uscirebbe fortemente indebolita».
La piazza Taksim è dunque destinata a diventare come la piazza  Tahrir? Migliaia di persone hanno già occupato fisicamente le strade  del distretto di Taksim. #OccupyGezi chiede aperture a un governo che ha fatto  sprofondare la società turca in un cieco conservatorismo.  Da un decennio è  ormai in corso un’opera moralizzatrice della società. Si comincia a ridiscutere  l’aborto, si vietano gli alcolici e si reprime la libertà di stampa: a tutt’oggi  ci sono 67 giornalisti in prigione e la Turchia è 159esima nel Worl Press  Freedom Index. Da questo punto di vista la protesta contro il progetto a danno  del Gezi Park è diventata la scintilla che ha infiammato tutta la Turchia e che  rischia d’incrinare seriamente il potere incontrastato dell’AKP. Il movimento  oramai s’è allargato a tutta la Turchia e non è difficile paragonarlo a quello  che portò alla caduta di Ben Ali o di Mubarak anche se i contesti sono molto  differenti tra loro e differenti saranno probabilmente gli effetti. Soprattutto  perché Erdoğan pur essendo al potere da oltre un decennio è stato comunque  scelto per mezzo di elezioni libere. Ma la morsa islamico-nazionalista in cui ha  stretto il Paese è oramai diventata insopportabile per la società turca. Ora il  premier sarà costretto a fare concessioni. E non appena ne farà una, ne dovrà  seguire un’altra e forse un’altra ancora. Forse l’epoca in cui Erdoğan era il  padrone assoluto della Turchia e decideva le sorti d’un popolo intero è  definitivamente tramontata.

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