“Cheer up: the world has plenty of oil” è il titolo di un articolo apparso di recente sulla rivista on-line European Energy Review. Che arriva a questa conclusione evidenziando come i più recenti sviluppi delle tecnologie di ricerca e di estrazione del petrolio abbiano condotto a una forte rivalutazione delle riserve del prezioso combustibile.
A tal proposito c’è sicuramente da rallegrarsi se queste novità porteranno a una riduzione della bolletta energetica nazionale: 63 miliardi di euro nel 2011, con un aumento del 19% rispetto al 2010. Ma da rallegrarsi un pò meno pensando all’inquinamento che questa fonte di energia ci dispensa; all’impiego improprio che si fa del petrolio, bruciandolo, anziché impiegarlo come materia prima; e anche al depauperamento delle riserve mondiali, ancorché maggiori del previsto, che sottraiamo alle generazioni future.
A tal proposito c’è sicuramente da rallegrarsi se queste novità porteranno a una riduzione della bolletta energetica nazionale: 63 miliardi di euro nel 2011, con un aumento del 19% rispetto al 2010. Ma da rallegrarsi un pò meno pensando all’inquinamento che questa fonte di energia ci dispensa; all’impiego improprio che si fa del petrolio, bruciandolo, anziché impiegarlo come materia prima; e anche al depauperamento delle riserve mondiali, ancorché maggiori del previsto, che sottraiamo alle generazioni future.
Quanto all’esaurimento di questa risorsa, è da parecchio tempo che se ne parla, ogni volta affermando con sicurezza che avrà luogo nel giro di non più di una trentina di anni. Questo avviene periodicamente dai tempi del Club di Roma, ormai quarant’anni fa. Ma anche da parecchio prima, perché ricordo di aver letto quanto segue in un articolo pubblicato nel 1887 su una autorevole rivista inglese (della quale ho sventuratamente perso il riferimento): “Non si può dubitare, temo, che si è attinto così largamente alle riserve di petrolio e di gas che fra non molti anni ne resterà ben poco... I segni dell’esaurimento sono ben visibili .... È praticamente impossibile che si trovino nuovi campi petroliferi confrontabili con quelli noti oggi.”
Dunque con buona pace della teoria del picco del petrolio, basata sugli studi del geofisico statunitense Marion King Hubbert, secondo la quale la produzione delle risorse minerarie è inizialmente soggetta a una fase iniziale di crescita rapida, per raggiungere poi un picco di produzione oltre il quale si ha un declino. Che sarebbe inarrestabile anche a fronte di nuovi investimenti perché questi diventano via via sempre più onerosi, fino a risultare economicamente insostenibili.
Ma su questo le opinioni degli esperti sono discordanti: c’è chi sostiene che il picco della produzione del petrolio sia stato addirittura già raggiunto e oltrepassato, mentre altri ritengono invece che sarà il picco della domanda ad arrivare prima del picco della produzione, a fronte della graduale attuazione dei provvedimenti dei vari governi indirizzati a diminuire l’impiego di questo combustibile per ridurre le emissioni di CO2.
E qui è interessante menzionare il caso degli Stati Uniti, dove il picco della produzione di petrolio venne raggiunto nel 1970, tanto che negli anni ’90 le importazioni arrivarono a superare la produzione interna. Ma dove oggi la produzione è tornata a crescere assai vivacemente; con la prospettiva, anche a causa della contrazione della domanda interna, che questo paese diventi addirittura un esportatore.
Del resto la natura ricorsiva delle previsioni nel campo dell’energia non riguarda soltanto l’esaurimento del petrolio. Un altro buon esempio riguarda l’avvio della produzione di elettricità proveniente dalla fusione nucleare. Anche di questo se ne parlava quando ero studente, negli anni ’50 del secolo scorso, prevedendo che ci si sarebbe arrivati nel giro di una trentina di anni. E questa previsione si è mantenuta tale col passare del tempo, perché oggi si parla del 2050 per il collegamento alla rete elettrica di un reattore a fusione.
Il boom crescita del fotovoltaico in Italia
Proviamo un fremito di orgoglio patriottico nella desolazione economica che ci attanaglia di questi tempi. Perché, come leggiamo in un recente rapporto del GSE (Gestore Servizi Energetici): “L’Italia si colloca nel 2011 al secondo posto nel mondo per capacità fotovoltaica totale in esercizio alle spalle della Germania e al primo posto, davanti alla stessa Germania, per nuova capacità installata nell’anno. È il risultato di una rincorsa che dal 2007 ha visto ogni anno più che raddoppiare il numero degli impianti esistenti a fine anno precedente e più che triplicare la potenza in esercizio.”
Più precisamente, nel corso del 2011 la potenza fotovoltaica installata è cresciuta da 3,5 GW a 12,8 GW (a cui nei primi mesi del 2012 si sono aggiunti altri 2,6 GW). Una potenza veramente gigantesca, che rappresenta il 10% di tutto il parco di generazione nazionale e che fra l’altro è assai maggiore delle più ambiziose proposte di installazione nucleare che erano state avanzate prima del referendum del 2011.
Però un conto è la potenza, un altro l’energia. Perché l’energia elettrica generata effettivamente dal fotovoltaico nazionale nel 2011 ammonta a 10,8 TWh (miliardi di chilowattora) a fronte di un consumo complessivo di 332 TWh, coprendo dunque appena il 3,3% del fabbisogno (al quale le importazioni di elettricità nucleare, non dimentichiamolo, contribuiscono per il 14%).
Va ricordato infatti che la fonte fotovoltaica è fortemente intermittente (alternarsi del giorno e della notte, variazioni della copertura di nuvole), per cui la produzione annua di elettricità ammonta soltanto a una piccola frazione di quella massima (quando il Sole è allo zenit e non vi sono nubi). E infatti il Gestore Servizi Energetici dichiara che nel 2011 le ore equivalenti di funzionamento del fotovoltaico sono state 1114, cioè circa un ottavo del totale (8760 ore).
Quanto poi al fotovoltaico “nazionale”, va detto che l’attributo riguarda certamente la dislocazione geografica dei pannelli, assai meno la loro provenienza, che in larga misura è straniera, prevalentemente cinese. Portando a concludere che con questa vicenda si è persa un’ottima occasione per potenziare l’industria nazionale del settore, per non parlare della ricerca scientifica e tecnologica. Perché la spesa investita negli incentivi economici che hanno reso tanto appetibile l’installazione dei pannelli fotovoltaici è veramente assai rilevante: oltre 6 miliardi di euro. Che non è a carico dello stato, ma la si ritrova in una apposita maggiorazione della bolletta elettrica che tutti noi paghiamo.
Un’altra osservazione riguarda il fatto che vaste estensioni di ottimo terreno agricolo pianeggiante sono oggi ricoperte da pannelli fotovoltaici, come si osserva viaggiando attraverso l’Italia: una scelta che non appare molto sensata dato che sottrae terreno alla produzione di alimenti, similmente del resto a quanto avviene per le culture destinate alla produzione di biocombustibili. È chiaro infatti che sarebbe assai più opportuno dedicare al fotovoltaico le coperture di edifici e capannoni.
Anche su questo punto il rapporto del GSE ci informa puntualmente: la potenza fotovoltaica totale installata a terra, poco più di 6 GW, è circa uguale a quella non a terra. Con una nota positiva riguardante gli impianti fotovoltaici a sostituzione di coperture di amianto, per i quali l’incentivo di legge è maggiorato, perché si tratta di oltre 16000 impianti con la bonifica di quasi 13 milioni di metri quadri. [Fonte].
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