Il 21 dicembre, secondo una cattiva interpretazione del calendario Maya, sarebbe arrivata la fine del mondo. Non è certo il primo annuncio di questo genere e sicuramente non sarà nemmeno l'ultimo: e la ragione è perché, in fondo in fondo, nell'idea dell'apocalisse c'è qualcosa di affascinante, almeno per alcuni di noi.
Shmuel Lissek, neuroscienziato dell'Università del Minnesota, che studia da anni il meccanismo cerebrale della paura, ritiene che, fondamentalmente, il concetto di apocalisse evochi una reazione innata e atavica nella maggior parte di noi mammiferi.
Shmuel Lissek, neuroscienziato dell'Università del Minnesota, che studia da anni il meccanismo cerebrale della paura, ritiene che, fondamentalmente, il concetto di apocalisse evochi una reazione innata e atavica nella maggior parte di noi mammiferi.
“La prima risposta a qualunque accenno di pericolo è la paura: è scritto nell’architettura stessa del nostro cervello”, spiega. Nel corso dell'evoluzione, sopravvivono gli organismi che affrontano la realtà seguendo il principio della prudenza. Questo meccanismo ha avuto conseguenze sia per il corpo sia per il cervello, dove la amigdala può attivare una risposta di paura prima che le aree corticali superiori abbiano la possibilità di valutare la situazione e reagire in modo più razionale.
Ma perché questa risposta di paura dovrebbe risultare gradevole? Lissek sospetta che per coloro che credono all'apocalisse imminente l'idea abbia un valore di conferma. Chi ha una storia di esperienze traumatiche, per esempio, può diventare fatalista. Per queste persone, trovare altri fatalisti che la pensano allo stesso modo è rassicurante.
Anche attribuire le proprie disgrazie a qualche genere di ordine cosmico superiore, contemplato per esempio in un'antica profezia maya, può essere di conforto. Questo tipo di mitologia, infatti, elimina qualunque senso di responsabilità individuale. Conoscere la data precisa della fine ha un fascino ancora maggiore.
“Credere nell'apocalisse rende prevedibile ciò che minaccia la nostra vita, la paura che nasce dalla nostra mortalità”, continua Lissek. In uno studio che ha condotto in collaborazione con Christian Grillon, neuroscienziato del National Institute of Mental Health, e altri colleghi, ha scoperto che la possibilità di sapere in anticipo che si subirà un'esperienza spiacevole o dolorosa, per esempio una scossa elettrica, induce a rilassarsi. L'ansia prodotta dall'incertezza svanisce.
Naturalmente, sapere quando arriverà la fine non è affascinante allo stesso modo per tutti, ma per molti diventa paradossalmente una ragione per smettere di preoccuparsi. Inoltre, significa anche che ci si può concentrare sulla preparazione. Icosiddetti prepper, quelli che si preparano al giorno del giudizio costruendo bunker e accumulando viveri, dice Lissek, sono impegnati in comportamenti orientati all'obiettivo, noti per essere una terapia efficace nei momenti di difficoltà
Apocalittici e complottisti
Oltre agli aspetti universali che riguardano la paura e la nostra risposta di sopravvivenza, a rendere più disponibili a credere che la fine del mondo sia vicina vi sono alcuni tratti di personalità. La psicologa sociale Karen Douglas, dell'Università del Kent, studia le persone che vedono cospirazioni ovunque e ha scoperto che, in alcuni casi, condividono alcune caratteristiche con chi crede nell'apocalisse imminente.
Benché si tratti di due fenomeni essenzialmente differenti, sottolinea Douglas, alcune convinzioni apocalittiche sono anche al centro nocciolo delle teorie complottiste: per esempio, si sente spesso dire che i governi sanno tutto su una determinata catastrofe in arrivo e nascondo intenzionalmente le informazioni per prevenire il panico.
“Un tratto in comune dei due tipi persone è una sensazione d'impotenza, spesso associata alla diffidenza nei confronti dell'autorità”, spiega Douglas. Tra i teorici della cospirazione, questo senso di diffidenza e impotenza rende le loro paranoie ancora più reali. “Queste persone si sentono depositarie di una conoscenza che altri non hanno”.
Sugli individui che inventano e diffondono queste teorie esiste un numero di studi relativamente limitato. Douglas sottolinea che le ricerche sulla psicologia della persuasione hanno dimostrato che coloro che credono di più sono anche i più motivati a diffondere le loro teorie. E nell'era di Internet, questo è ben più semplice che in passato.
Lezioni di distopia
Steven Schlozman, psichiatra infantile presso la Harvard Medical School e scrittore (il suo primo libro racconta un'apocalisse popolata di zombie) ritiene che ad affascinare di più le persone sia il paesaggio post apocalittico. “Nella pratica clinica, ne discuto con i bambini e loro la trovano una cosa positiva. Dicono 'La vita sarebbe più semplice, potrei sparare agli zombie e non dovrei andare a scuola'”, spiega.
Sia nella letteratura sia nel colloquio con i pazienti, Schlozman ha notato che le persone frequentemente considerano in modo romantico la fine dei tempi. Immaginano di poter sopravvivere, prosperare e ritornare alla natura. Poco tempo fa, Schlozman ha avuto un’esperienza che riecheggia sinistramente la trasmissione radiofonica di Orson WellesLa Guerra dei mondi del 1938.
Stava discutendo del suo libro in un programma radiofonico, ma lo show ha dovuto essere interrotto perché gli ascoltatori scambiavano il racconto per fatti veri. Schlozman ritiene che la propensione al panico non sia costante nella storia ma rifletta il particolare periodo storico. Nel mondo complicato di oggi, un cui si è minacciati dal terrorismo, dalfiscal cliff (il cosiddetto “baratro fiscale” statunitense che consiste in una drastica riduzione del PIL frutto della combinazione tra il taglio delle spese e l'aumento delle tasse NdT) e dal cambiamento climatico, le persone sono più inclini al panico.
“Tutta questa incertezza e tutta questa paura si combinano e si rafforzano: le persone pensano che dopo il disastro forse la vita potrebbe essere migliore”, spiega Schlozman. Certamente, la maggior parte dei sogni post apocalittici è solo una fantasia che non tiene conto delle difficoltà della vita dei pionieri o della mancanza di infrastrutture.
Per lo meno, conclude Schlozman, le storie dell'apocalisse, in particolare quelli che coinvolgono gli zombie, idealmente dovrebbero insegnarci qualcosa sul mondo che vorremmo evitare, e su come prendere fin da ora i provvedimenti necessari.
[Fonte http://www.lescienze.it/].
[Fonte http://www.lescienze.it/].
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